PROGETTISTI: DELISABATINI architetti + Arch. D’Andria + Arch. Scanzani
ANNO: 2007
DESCRIZIONE: Completamento delle Strutture Museali Dedicate, in Orani, all’opera di Costantino Nivola
LOCATION: ORANI
COMMITTENTE: pubblico
COLLABORATORI: Federico Marchi, Alessandro Oltremarini, Daniele Rocchio
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L’area dell’intervento è un pendio a mezza costa piuttosto accidentato e acclive, ai confini del centro abitato di Orani; denso di una vegetazione agricola, si pone a cavallo tra le propaggini dell’area edificata, della quale il museo attuale costituisce l’ultimo lembo, con il suo suolo modellato secondo un andamento geometrico, e una natura invece libera e incolta, dove la macchia domina incontrastata tra affioranti balze di roccia; in questo contesto, la cava abbandonata ormai rinaturalizzata è una cicatrice antropica riassorbita che ci consegna un invaso spaziale raccolto, avvolgente, appartato, spazialmente fortemente connotato, che denuncia la natura rocciosa del suolo, cerniera naturale tra città e campagna, tra territorio urbanizzato e natura.
In questo contesto, l’attuale museo è una felice e sobria fusione di spazi espositivi aperti e coperti: concepito per padiglioni staccati immersi in un parco il cui suolo è stato modellato secondo superfici e linee spezzate che si interrompono bruscamente al confine attuale, è legato da un’interessante spazio aperto, una corte d’accesso abitata da opere di grande dimensione, tra loro in colloquio e che rimandano continuamente al paesaggio circostante; in questo spazio a cielo aperto, compreso tra le superfici ruvide della pietra delle murature e del ciottolato, contrastano e si confrontano con la purezza astratta delle forme e la levigatezza delle superfici le stesse pietre sublimate in arte per mano dell’uomo; spazio assorto in una dimensione meditativa, esaltata e rafforzata dal commento sonoro dell’acqua che con la sua presenza discreta ma costante, accompagna con il quieto e sommesso gorgoglìo del suo lento scorrere il visitatore lungo l’intera visita.
Questo contesto, armonico e già calibrato, si riconosce figurativamente composto secondo un doppio sistema ordinatore: quello ortogonale dei padiglioni espositivi e quello per più libere fasce e linee spezzate dal notevole rilievo segnico-plastico che invece governa il suolo e la stecca dei servizi.
Il progetto si pone in questo senso in una logica di continuità con il preesistente, ribattendo questo doppio sistema ordinatore e assecondando l’organizzazione per padiglioni connessi da spazi espositivi aperti, si struttura in un edificio lineare quasi del tutto ipogeo (accoglie le funzioni museli, il laboratorio, l’auditorium e il bar) che, allineato al lavatoio, affonda nel sottosuolo, affiorando con il solo atrio, completando come terzo oggetto la composizione ortogonale; oggetto che nelle dimensioni esteriori si mostra formalmente e dimensionlmente assai contenuto, quasi modesto, privo di ogni eccesso semantico ma in diretto rapporto con i volumi del Lavatoio e del Sand Cast.
Il sistema più libero per fasce e linee spezzate governa invece la fascia dei servizi (uffici, biblioteca, archivio, etc.) che nell’ampliamento segue la stessa logica degli uffici esistenti e la sistemazione del suolo attuale.
Con un linguaggio volutamente secco, ridotto, essenziale, stereometrico, questa architettura che non si preoccupa di problemi di facciata, agisce fortemente ma defilata, evita eccessi semantici, ma è incline alla seduzione del segno e al valore espressivo dell’energia che lo ha generato ed impresso.
Il segno ossessivamente appare materializzato sotto forme diverse nell’intero intervento, e in forme diverse esprime e rappresenta metaforicamente e metamorficamente il passaggio dalla città alla campagna, dal costruito al naturale; il segno diviene generatore di spazi come nell’edificio ipogeo del museo quando, conformando allo stesso modo la pianta e la sezione, con il suo andamento oscillatorio e sincopato rispetto ad un segno lineare di confronto, frastagliato e intimamente ammorsato al suolo, esprime il continuo variare dello stato di eccitazione, tensione e densità spaziale, passando da una condizione iniziale di grande tensione spaziale accumulata nell’atrio, attraverso successive contrazioni e dilatazioni e ad una progressiva regolarizzazione e dissipazione con una caduta di tensione spaziale fino ad una completa dissolvenza nello scavo inclinato che emerge nella natura potente dell’invaso spaziale della cava.
Questa stessa tendenza alla progressiva dissolvenza naturalistica espressa dall’edificio, si ritrova in forme diverse nei segni impressi al suolo riplasmato attraverso operazioni di scavo, sottrazione di incisione di addizione, segni che derivano dalle nervose spezzate di muri e superfici del suolo preesistente ma che nel loro prolungarsi con sentieri e muri secondo il vettore del museo verso occidente, si svincolano dalla rigida geometria guadagnando più liberi e morbidi andamenti naturalistici; anche il segno continuo geometrico e frastagliato come un’erosione dal delicato rilevato plastico che delimita il bordo proteso nel vuoto verso il paesaggio del luogo deputato all’esposizione all’aperto, estensione della corte d’accesso, sul quale le opere come su trampolini sono proiettate nel paesaggio, gradualmente si riduce dissolvendosi in un sinuoso e libero sentiero che si inoltra esplorando la cava per poi riconformarsi geometricamente alla sua successiva inversione di marcia.
Il progetto, quasi interamente ipogeo, si pone come un oggetto per sua natura introverso, ma questa caratteristica viene ulteriormente rafforzata ed esaltata da una ricercata duplice natura, che vuole un prepotente contrasto tra semplicità e complessità, tra esteriorità e interiorità, tra l’essere e l’apparire, una complessità contenuta in un apparente semplicità.
Il museo si mostra all’esterno con un modesto quasi dimesso volume che nulla lascia apparire e trapelare della forza, della inaspettata potenza densamente poetica del suo spazio interno, sommità emergente di un grande atrio-ninfeo, una cavità a tutta altezza che incuneandosi profondamente nel suolo guadagna la quota del Sand Cast alla quale si sviluppa lo stesso ampliamento del museo, ( attraverso una successione di ambienti avviati verso la luce del piano inclinato che consente di riemergere entro la cava divenuta giardino segreto protetto tra scoscese pareti rocciose); questo atrio-ninfeo trasforma il notevole ostacolo del dislivello altimetrico tra i padiglioni attuali in una eccezionale risorsa spaziale: conformandosi l’atrio e l’intero museo come un edificio panottico, attraversato cioè dallo sguardo che lo percorre interamente lungo assi, condensatori di energia che come faglie lo attraversano nelle due dimensioni e attorno ai quali si addensa la materia, si connotano, questi due momenti dello stesso organismo lineare l’uno, l’atrio-ninfeo luogo della discesa, con una spiccata e quasi assoluta concezione spaziale verticale che direttamente allinea la profondità del suolo, con il cielo aperto e l’acqua, spazio che come una camera di deflagrazione pone a diretto confronto cielo, terra e acqua in attesa di un evento, e l’altro, il criptoportico luogo del museo che con un procedere orizzontale sonda e percorre il sottosuolo, dalla profondità dell’atrio, scorrendo attraverso un pulsare di successivi ambienti per riemergere in superficie entro la cava.
Questo progetto consegna al visitatore la sensazione magica della scoperta e della sorpresa, naturalmente privata di ogni sensazionalismo, depurato attraverso una poetica della riduzione, di uno spazio concepito per addensare al proprio interno la dimensione meditativa e di sospesa attesa, e che tende ad annullarsi al cospetto delle opere d’arte.
Il progetto, per la quasi totale assenza di prospetti, per il suo carattere introverso, è una rievocazione debitamente filtrata della memoria ancestrale delle grotte reincarnata anche nelle sarde domus de janas; la monomatericità dell’involucro lo rende assimilabile allo scavo in una materia unica, nella quale si agisce per sottrazione. La materia è quella ruvida della pietra e del calcestruzzo che con la sua eccezionale dote plastica di ricevere impressi segni e puntuali interventi di plasmatura, pratica peraltro largamente condivisa da Nivola nelle facciate monumentali, riecheggia in deformati frammenti e citazioni la sua opera.
Una atmosfera assorta di denso e sovrano meditativo silenzio ricorre e pervade l’intero intervento nei suoi interni, da quelli più aulici e dichiarati dell’atrio-ninfeo fino ai recessi più nascosti, agli spazi esterni, che si conformano inducendo alla riflessione e alla contemplazione delle opere nel paesaggio.
Dell’intero intervento, l’atrio-ninfeo è lo spazio forse più lirico: direttamente accessibile dallo spazio solare e disteso della corte, il profondo vuoto si apre improvviso al visitatore mostrando entro una cavità geometrizzata inondata dalla luce che piove dall’alto, nella sua interezza, la profondità del taglio inferto al suolo; intermedio tra interno ed esterno, con la sua capacità attrattiva inghiotte e induce alla discesa, al raggiungimento del fondo sul quale si stagliano come lontani punti geometricamente disposti e sospesi su di un velo d’acqua le opere minute dei Letti e delle Spiagge; percorrendo una scala appesa ad una strapiombante parete inclinata, la discesa obbliga il visitatore a vivere il forte contrasto tra l’alternanza del passaggio dagli spazi chiusi e in silenziosa penombra delle tre gallerie espositive che progressivamente si rastremano verso il basso, e l’atmosfera trascendente e straniante del grande vuoto, attraverso un progressivo avvicinamento alle opere sempre più prossime alla vista ravvicinata fino alla percezione della loro grana materica.
Questa grande cavità materializza con la sua vista prepotentemente zenitale il tema della visione divina nivoliana rappresentata nei Letti e nelle Spiagge, amplificandola e strutturandola, un’idea che diviene ridondante metafora del mondo: Dio che dall’alto osserva frammenti di un’umanità distesa, peraltro riattualizzata dalla contemporanea vigile visione satellitare.
In questi spazi la luce entra radente accendendo forti contrasti, dichiarando il carattere ruvido dei materiali, materializzandoli anziché smaterializzandoli; qui, la luce stempera la potenza che le viene dal cielo nella penombra del sottosuolo; qui la luce non è costante e diffusa ma mutevole e generatrice di forti contrasti.
Successivamente all’esplosione spaziale dell’atrio, intriso di suggestioni e della presenza sonora dell’acqua che, dalla corte d’accesso, attraverso una fessura cola lungo la parete in un gorgogliante velo d’acqua, il percorso museale si avvia entro una lunga teoria di spazi che si comprimono e si dilatano all’interno di una stessa materia scavata, rievocando i meditativi e silenziosi luoghi catacombali, dove la luce radente esalta la ruvida matericità delle pareti e delle opere esposte, traguardando la luce sul fondo, sfiorando la pausa dell’inghiottitoio di luce che segna il passaggio alle funzioni diverse (del laboratorio, auditorium bar etc.) , il criptoportico, ormai dissipata parte della sua tensione iniziale si conclude in un ascendente piano erboso inclinato che riemerge entro la natura protetta tra le scoscese pareti di roccia del giardino segreto.